Nota: siamo alla terza parte dell’articolo di Alfredo Rapaggi
Abbiamo osservato e vissuto il lavoro di una certa minoranza di psicoterapeuti che ha cercato di mettere insieme le teorie e le pratiche post-reichiane, e alcune psico-corporee con la psicoanalisi più ortodossa.
Si è fatto un paziente lavoro di sutura tra le conoscenze psicorporee, che si andavano ampliando a dismisura negli anni settanta ad opera di varie figure professionali, da psicologi a medici a fisioterapisti a sociologi, e le scuole psicoanalitiche che invece arrancavano nella morsa della difesa della parola come unico strumento utilizzabile per la cura. Si è guardato con fiducia ai precursori ed estensori delle terapie corporee, che riconoscevano la necessità di lavorare insieme agli specialisti della psiche o di utilizzare essi stessi una doppia modalità per ciascun paziente.
Ricordiamo, tra gli altri, Ida Rolf ,John Pierracos, Moshe Feldenkrais, F. Matthias Alexander, Pierre Acoutourier, Jack Worsley, Judith Aston, Charlotte Selver. Tutti costoro hanno proposto terapie corporee che riconoscevano il legame stretto con la componente psichico-emozionale ed hanno indirettamente suggerito l’utilizzo di parte di quelle tecniche all’interno della cura psicoanalitica.
Anche quando hanno chiarito di essere diversi e non necessariamente complementari ha dato la loro indiretta spinta collaborativa.
Ci hanno pensato psicoterapeuti e psicoanalisti, quelli tra loro che ne hanno sentito l’esigenza e l’hanno seguita, a procedere verso la catalizzazione dei due metodi, verbale e corporeo.
A volte con imprudenza, con involontaria ignoranza, a volte invece con la coscienza di essere davanti ad un grande problema: dover rispettare assolutamente l’efficacia del transfert, non vanificarne gli effetti pur cercando modalità più efficaci in questa epoca e in questa cultura.
E certamente varrà la pena tornare sull’argomento, magari dedicandogli uno dei prossimi convegni.
Abbiamo contemporaneamente conosciuto altri colleghi, che hanno preferito manipolare alcune delle teorie e delle modalità gruppali di quella che è stata chiamata “Psicologia Umanistica”, per coglierne due aspetti mancanti alla psicoanalisi:
- la confidenza col corpo reale,
- la capacità di gestire situazioni di gruppo, dove l’obiettivo di far emergere il materiale latente passava da esperienze relazionali che potevano essere vissute nel “qui ed ora” e nel “qui ed ora” interpretate e modificate.
Infine voglio ricordare un altro gruppo italiano, abbastanza consistente, diventato una realtà editoriale a cui oggi si potrebbero anche muovere mille critiche, ma che comunque è riuscito a cogliere la domanda di moltissime persone, e questo non è mai un dato trascurabile. Questo gruppo si è basato sull’opera di Jung per poi dare importanza all’aspetto psicosomatico delle nevrosi e diffondere questo importante nesso psiche-corpo.
Tutto ciò fino a ieri, e mi scuso d’essere stato molto riassuntivo.
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