Benvenuta eccellenza

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Benvenuta eccellenza

Il titolo non tragga in inganno, non voglio parlare del saluto ad un personaggio importante ma di un pregio, di uno stato, di un elemento che renderebbe bello ciò che stiamo facendo se lo potessimo fare.

Parlo di quell’eccellenza che non è la perfezione, ma una specie di suo surrogato, secondo una moderna e produttiva concezione dell’essere.
Il termine è indubbiamente mediato dalle organizzazioni. Un bel giorno un manager particolarmente creativo deve aver preso il vocabolario e deve essersi accorto che si poteva ottenere il massimo dalle persone chiedendo loro qualcosa di simile alla perfezione, senza procurare crisi depressive.
Come qualcuno sa, e qualcun altro di voi presto imparerà, uno dei trucchi più sicuri per entrare in depressione è quello di darsi degli obiettivi irraggiungibili, preconsci o inconsci, e pretendere di raggiungerli. Si deprime l’infante quando sente che il suo corpo è distinto da quello di sua madre e sogna di tornare indietro; si deprime la madre che vorrebbe avere il figlio senza perdere le sue caratteristiche di ragazza libera e seducente; si deprime il funzionario “perfetto” che scopre che le poltrone dirigenziali di cui solo lui era degno, sono state tutte occupate; si deprime il giocatore incallito quando, per colpa di un solo numero, sbaglia la vincita della vita e si ritrova pieno di debiti; si deprime l’amante quando scopre “all’improvviso” che la meravigliosa, insuperabile persona che ama non è più sua.
Dunque, pena la depressione, non si può chiedere alle persone di essere perfette, neanche in un’organizzazione che ha la pretesa di esserlo nel suo insieme o nella sua immagine, e nemmeno in una società che mostra modelli perfetti illudendo che siano alla portata di tutti.
Ecco perché, un bel giorno, dal vocabolario del famoso manager creativo è uscito un verbo che si adattava “perfettamente” allo scopo: il verbo eccellere.
In questo modo, invece di chiedere l’impossibile perfezione si chiede di superare “semplicemente” tutti i concorrenti, di arrivare là dove nessun altro riesce ad arrivare. Il gioco ha funzionato benissimo e il termine adesso è messo in tutti i programmi di lavoro che si rispettino.
Naturalmente l’eccellenza è mobile: è un tetto che si sposta verso l’alto man mano che qualcuno lo raggiunge e in teoria non ha un limite. Se lo avesse, se un giorno quel tetto fosse insuperabile vorrebbe dire che esiste la perfezione, cioè il punto non migliorabile.
Ma, tranquilli, non esiste, almeno per l’essere umano che conosciamo.
Esiste invece l’esigenza di essere costantemente nello stato migliore possibile. Senza esagerare, senza chiedere a noi stessi più di quanto serva per star bene.
Prendiamo per esempio la nostra categoria professionale. Sappiamo che apparteniamo ad una delle categorie più pigre dell’era moderna, tendente a chiudersi nel suo studio e a seguire l’andamento naturale delle visite. C’è stato un periodo in cui è andata bene così, soprattutto per la scarsità di concorrenza rispetto alle richieste. E’ la legge del libero mercato e vale per tutte le categorie. Ma oggi, ci piaccia o no, dobbiamo puntare anche noi all’eccellenza.
Partendo dalla formazione, che va cercata con cura e cucita sulla nostra personalità. Che deve essere varia, pratica, creativa, completa: insomma eccellente.
Non ci siamo abituati a questa parola ma non abbiamo altra scelta. E’ ora che ci abituiamo ad usarla e a coglierne il senso più positivo. Non come surrogato della perfezione, non come stressante imperativo narcisistico, ma come obiettivo che porta le migliori soddisfazioni nel campo professionale.
A. Rapaggi

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