Il primo psicodramma analitico di coppia: gioca il marito

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Il primo psicodramma analitico di coppia: gioca il marito

Quando si sono rivolti al mio studio di psicoanalisi, lei era decisa ad avere un figlio, mentre lui era assolutamente spaventato all’idea, ma non l’avrebbe mai ammesso in questi termini, e trovava cento motivazioni logiche per rimandare all’infinito.
Come sappiamo, entrambi erano all’oscuro del metodo dello psicodramma analitico, ma la fiducia nella persona dello psicanalista, e l’urgenza di risolvere i conflitti di coppia, aveva loro permesso di non fermarsi su questo dettaglio, La corda era molto tesa, come si suol dire, ma nessuno dei due si accorgeva che la tensione era data soprattutto dal desiderio sadico e masochistico di entrambi. E cioè che entrambi si erano trovati d’accordo nell’utilizzare questo argomento per tormentare l’altro e per ricevere in cambio massicce dosi di aggressività.
Lei aveva anche cercato di trasformare in gioco sessuale parte della sofferenza che la tormentava, e si era messa con impegno a cercare di convincerlo a seguirla.
Lui però si era spaventato, smarrito, temeva di perdere il controllo, di percorrere strade senza meta, di svelare zone d’ombra della psiche di cui nemmeno lui aveva vera conoscenza.
E così era di nuovo la relazione concreta, il rapporto affettivo di tutti i giorni, la loro vita sessuale, a subire le conseguenze di questa ennesima repressione.
L’obiettivo dello psicodramma analitico era quello di portare alla coscienza di ciascuno l’intrigo psichico, il conflitto che abbiamo provato a chiarire in questo quadro. rivivendo insieme le loro esperienze infantili e proiettandole nel presente, per far sì che si rendessero conto che, pur partendo da queste, avrebbero potuto cercare parti sane della loro personalità su cui ricostruire un rapporto più sereno.
Nella sessione che descriveremo brevemente in questo articolo l’accento è messo sui messaggi che la psiche manda automaticamente attraverso il corpo, soprattutto per due motivi:
perché sono stati i più comprensibili anche per loro;
perché, trattandosi di messaggi del subconscio e dell’inconscio, sono molto più veri e diretti, quindi più chiari anche per lo psicanalista.
Sono stati quelli che ci hanno permesso di dimostrare l’importanza dell’inconscio e di ottenere la massima collaborazione possibile per lo svolgimento delle sessioni di psicodramma analitico successive.
Dire a due persone che la loro relazione ricalca gli schemi lungamente visti nella famiglia d’origine è abbastanza semplice; spiegare loro che quegli schemi sono stati automaticamente interiorizzati, ripetuti e presi come propri,  è ancora piuttosto fattibile, soprattutto oggi, dopo la scoperta dei neuroni specchio; incominciare a convincerle che hanno meccanismi inconsci che continuano ad agire come se esistessero ancora le condizioni originarie di adattamento, che le obbligano ad andare contro le proprie pulsioni, a censurarle, a sacrificarle, a scegliere la strada di una vita sofferente, beh, questo non è per niente facile in tempi brevi.
Bisogna passare dalla sollecitazione prettamente cognitiva a quella emotiva. Bisogna chiedere alle persone di gettare un immaginario ponte tra ciò che ognuno può comprendere, come uno schema riferibile a chiunque, e ciò che si riferisce alla propria esperienza affettivo-emotiva, quindi a ciò che solo loro, i protagonisti, possono veramente capire. Non è facile e c’è bisogno, come sappiamo, di un lungo cammino fatto di aperture e di chiusure,  di vissuti transferali, di conquiste e di ricadute, di prese di coscienza, di nuove rimozioni, di negazioni, eccetera.
Ma osservare che i loro corpi sono distanti, che sono di fronte come se stessero per combattersi; che il tono della loro voce è aspro e aggressivo; che gli occhi hanno un’espressione cruda; che i gesti sono quelli di chi allontana, o di chi seduce e cerca di manipolare, eccetera, beh, questo è decisamente più semplice e si hanno molte più probabilità di essere seguiti, nonostante le resistenze. Soprattutto se si hanno a disposizione le varie tecniche che offre lo psicodramma analitico: dal rispecchiamento, al doppiaggio, alla moltiplicazione, all’inversione di ruolo, alla scultura, eccetera
Dopo queste prime osservazioni, e dopo la ripetuta raccomandazione che ognuno impari ad osservare solo se stesso, si può passare più agevolmente a chiarire di volta in volta che tipo di resistenza viene utilizzata in un certo frangente e il presumibile motivo.
Così è successo con Mirella e Renato.
Renato.
Il primo rispecchiamento l’ho suggerito a Renato, mentre rinfacciava alla moglie di accoglierlo, quando tornava dal lavoro, in modo contraddittorio, con un mezzo sorriso e tanta aggressività, con osservazioni e domande veramente “straccia-attributi”, insomma, era offeso per quel tormentone che ogni sera lui “era costretto” a subire.
“Costretto” era l’attributo chiave, quello che conteneva il suo adattamento al primo ambiente, la sua coazione a ripetere. Volevo che si rendesse conto da che cosa fosse costretto, che cosa c’era di suo, d’intimamente suo, oltre al legame con lei.
Quando l’Io-ausiliario ha riprodotto la scena, mettendo l’accento sulla sua componente “vittima”, in qualche modo passivo e strapazzato suo malgrado, Renato ha avuto un sussulto e le ha inveito: <sei pari pari mia sorella>
Da questa frase è iniziata la scena associativa tra lui e la sorella vera, una scena riferita ai  suoi 8 anni, quando la sorella ne aveva 13.
La mamma era uscita, lui ricorda quanto volesse giocare con la sorella, a cui era molto attaccato. Lei aveva proposto di fare un film d’avventura, dove lui era un principino e lei il pirata.
Subito era stata premurosa, lo aveva vestito mettendogli addosso un bel foulard azzurro e una collana d’oro della mamma, poi gli aveva costruito un cappello rosso con un anello davanti e gli aveva detto che la sua nave era pronta con il suo carico di preziosi. La nave in verità era un vecchio divano di ferro, tenuto in cantina. Renato ricordava la canzoncina che cantava insieme alla sorella mentre si sentiva un vero principino a bordo della nave reale: era la sigla di un cartone animato che vedevano sempre insieme. Ad un certo punto la nave era stata attaccata da cattivissimi pirati, cioè dalla sorella, che dopo lunga lotta avevano catturato il principino per chiedere poi un riscatto alla regina madre. Il principino venne legato, stretto perché non scappasse, con diverse corde, quindi torturato, diciamo pizzicato e graffiato, con strumenti vari, poi nascosto sotto un telo nero per non farlo trovare: avrebbe dovuto essere un gioco, anche le torture avrebbero dovuto essere uno scherzo, ma la sorella non riuscì a mantenere sempre il controllo, e finì per procurargli vere ferite. Quando la mamma tornò a casa, la sorella, vergognandosi di quello che aveva fatto, disse che non sapeva dove fosse  Renato, che lo aveva perso di vista da una buona ora. Panico della mamma che si è messa a telefonare a vicini e parenti, fino alla decisione di chiamare la polizia. A quel punto la sorella, ancora più spaventata, era corsa in cantina ad avvisare il fratello di non fiatare, di restare nascosto in silenzio perché la mamma si era molto arrabbiata per il loro gioco. E se ne era tornata via promettendo che sarebbe tornata presto a prenderlo, se lui fosse stato in silenzio.
Renato era già in un silenzio volontario, un silenzio quasi abituale, tante volte doveva essere stato vissuto. Un silenzio fatto di terrore, di dolore e di fiducia. Nel giocare quella scena psicodrammatica, in cui era legato, in cantina, al buio, ripeteva, con gli occhi gonfi di lacrime e la  voce monotona: <adesso vedrai che Robby ritorna  e mi abbraccia forte forte, ritorna, ritorna, ritorna..>  Non ricordava quanto tempo fosse passato, ma solo che difese aveva messo in atto per resistere: le fantasie che arrivasse il suo esercito, quello del principino, oppure una bella principessa come nelle favole che gli raccontava la mamma, o semplicemente la sorella buona che aveva cacciato via quella cattiva. E ricordava le ferite che gli bruciavano e che non poteva curarsi. Ma restò in silenzio, ubbidiente, finché non vennero a liberarlo.
Era notte: aveva freddo, fame, dolore e sonno, ma ricordava ancora la sua sorellona, “poverina”, che piangeva spaventata e continuava a ripetere che non c’entrava niente, che non era colpa sua.
Questo era stato il particolare più significativo, tanto dell’episodio infantile, quanto della sessione di psicodramma: la difesa che Renato stesso aveva fatto della sorella, cercando di convincere la mamma prima, e l’analista poi, che si era fatto male da solo e che la sorella non c’entrava niente.
Volle ripetere scene simili più volte, negli psicodrammi, dopo che gli avevo messo il sospetto che qualcosa non funzionava secondo logica nel suo racconto e che forse aveva cercato di utilizzare Mirella per sopportare quella prima parte della vita, per tentare di modificarla risolvendo gli enigmi che si era portato dentro. Primo fra tutti, il desiderio di amare la più piccola delle due femmine che aveva trovato in casa, di capire perché quella, invece, lo trattasse a volte con aggressività, a volte con tenerezza, a volte con timore, insomma perché lui stesso avesse tanta confusione rispetto alla relazione con la sorella e perché l’avesse trasferita su Mirella.
Quando si sono rivolti al mio studio di psicoanalisi, lei era decisa ad avere un figlio, mentre lui era assolutamente spaventato all’idea, ma non l’avrebbe mai ammesso in questi termini, e trovava cento motivazioni logiche per rimandare all’infinito.

Come sappiamo, entrambi erano all’oscuro del metodo dello psicodramma analitico, ma la fiducia nella persona dello psicanalista, e l’urgenza di risolvere i conflitti di coppia, aveva loro permesso di non fermarsi su questo dettaglio, La corda era molto tesa, come si suol dire, ma nessuno dei due si accorgeva che la tensione era data soprattutto dal desiderio sadico e masochistico di entrambi. E cioè che entrambi si erano trovati d’accordo nell’utilizzare questo argomento per tormentare l’altro e per ricevere in cambio massicce dosi di aggressività.
Lei aveva anche cercato di trasformare in gioco sessuale parte della sofferenza che la tormentava, e si era messa con impegno a cercare di convincerlo a seguirla.

Lui però si era spaventato, smarrito, temeva di perdere il controllo, di percorrere strade senza meta, di svelare zone d’ombra della psiche di cui nemmeno lui aveva vera conoscenza.
E così era di nuovo la relazione concreta, il rapporto affettivo di tutti i giorni, la loro vita sessuale, a subire le conseguenze di questa ennesima repressione.

L’obiettivo dello psicodramma analitico era quello di portare alla coscienza di ciascuno l’intrigo psichico, il conflitto che abbiamo provato a chiarire in questo quadro. rivivendo insieme le loro esperienze infantili e proiettandole nel presente, per far sì che si rendessero conto che, pur partendo da queste, avrebbero potuto cercare parti sane della loro personalità su cui ricostruire un rapporto più sereno.

Nella sessione che descriveremo brevemente in questo articolo l’accento è messo sui messaggi che la psiche manda automaticamente attraverso il corpo, soprattutto per due motivi:
  • perché sono stati i più comprensibili anche per loro;
  • perché, trattandosi di messaggi del subconscio e dell’inconscio, sono molto più veri e diretti, quindi più chiari anche per lo psicanalista.

Sono stati quelli che ci hanno permesso di dimostrare l’importanza dell’inconscio e di ottenere la massima collaborazione possibile per lo svolgimento delle sessioni di psicodramma analitico successive.
Dire a due persone che la loro relazione ricalca gli schemi lungamente visti nella famiglia d’origine è abbastanza semplice; spiegare loro che quegli schemi sono stati automaticamente interiorizzati, ripetuti e presi come propri,  è ancora piuttosto fattibile, soprattutto oggi, dopo la scoperta dei neuroni specchio; incominciare a convincerle che hanno meccanismi inconsci che continuano ad agire come se esistessero ancora le condizioni originarie di adattamento, che le obbligano ad andare contro le proprie pulsioni, a censurarle, a sacrificarle, a scegliere la strada di una vita sofferente, beh, questo non è per niente facile in tempi brevi.

Bisogna passare dalla sollecitazione prettamente cognitiva a quella emotiva. Bisogna chiedere alle persone di gettare un immaginario ponte tra ciò che ognuno può comprendere, come uno schema riferibile a chiunque, e ciò che si riferisce alla propria esperienza affettivo-emotiva, quindi a ciò che solo loro, i protagonisti, possono veramente capire. Non è facile e c’è bisogno, come sappiamo, di un lungo cammino fatto di aperture e di chiusure,  di vissuti transferali, di conquiste e di ricadute, di prese di coscienza, di nuove rimozioni, di negazioni, eccetera.

Ma osservare che i loro corpi sono distanti, che sono di fronte come se stessero per combattersi; che il tono della loro voce è aspro e aggressivo; che gli occhi hanno un’espressione cruda; che i gesti sono quelli di chi allontana, o di chi seduce e cerca di manipolare, eccetera, beh, questo è decisamente più semplice e si hanno molte più probabilità di essere seguiti, nonostante le resistenze. Soprattutto se si hanno a disposizione le varie tecniche che offre lo psicodramma analitico: dal rispecchiamento, al doppiaggio, alla moltiplicazione, all’inversione di ruolo, alla scultura, eccetera

Dopo queste prime osservazioni, e dopo la ripetuta raccomandazione che ognuno impari ad osservare solo se stesso, si può passare più agevolmente a chiarire di volta in volta che tipo di resistenza viene utilizzata in un certo frangente e il presumibile motivo.

Così è successo con Mirella e Renato.

Renato.

Il primo rispecchiamento l’ho suggerito a Renato, mentre rinfacciava alla moglie di accoglierlo, quando tornava dal lavoro, in modo contraddittorio, con un mezzo sorriso e tanta aggressività, con osservazioni e domande veramente “straccia-attributi”, insomma, era offeso per quel tormentone che ogni sera lui “era costretto” a subire.

“Costretto” era l’attributo chiave, quello che conteneva il suo adattamento al primo ambiente, la sua coazione a ripetere. Volevo che si rendesse conto da che cosa fosse costretto, che cosa c’era di suo, d’intimamente suo, oltre al legame con lei.

 

Quando l’Io-ausiliario ha riprodotto la scena, mettendo l’accento sulla sua componente “vittima”, in qualche modo passivo e strapazzato suo malgrado, Renato ha avuto un sussulto e le ha inveito: <sei pari pari mia sorella>

 

Da questa frase è iniziata la scena associativa tra lui e la sorella vera, una scena riferita ai  suoi 8 anni, quando la sorella ne aveva 13.

La mamma era uscita, lui ricorda quanto volesse giocare con la sorella, a cui era molto attaccato. Lei aveva proposto di fare un film d’avventura, dove lui era un principino e lei il pirata.

Subito era stata premurosa, lo aveva vestito mettendogli addosso un bel foulard azzurro e una collana d’oro della mamma, poi gli aveva costruito un cappello rosso con un anello davanti e gli aveva detto che la sua nave era pronta con il suo carico di preziosi. La nave in verità era un vecchio divano di ferro, tenuto in cantina. Renato ricordava la canzoncina che cantava insieme alla sorella mentre si sentiva un vero principino a bordo della nave reale: era la sigla di un cartone animato che vedevano sempre insieme.

Ad un certo punto la nave era stata attaccata da cattivissimi pirati, cioè dalla sorella, che dopo lunga lotta avevano catturato il principino per chiedere poi un riscatto alla regina madre. Il principino venne legato, stretto perché non scappasse, con diverse corde, quindi torturato, diciamo pizzicato e graffiato, con strumenti vari, poi nascosto sotto un telo nero per non farlo trovare: avrebbe dovuto essere un gioco, anche le torture avrebbero dovuto essere uno scherzo, ma la sorella non riuscì a mantenere sempre il controllo, e finì per procurargli vere ferite. Quando la mamma tornò a casa, la sorella, vergognandosi di quello che aveva fatto, disse che non sapeva dove fosse  Renato, che lo aveva perso di vista da una buona ora. Panico della mamma che si è messa a telefonare a vicini e parenti, fino alla decisione di chiamare la polizia. A quel punto la sorella, ancora più spaventata, era corsa in cantina ad avvisare il fratello di non fiatare, di restare nascosto in silenzio perché la mamma si era molto arrabbiata per il loro gioco. E se ne era tornata via promettendo che sarebbe tornata presto a prenderlo, se lui fosse stato in silenzio.

Renato era già in un silenzio volontario, un silenzio quasi abituale, tante volte doveva essere stato vissuto. Un silenzio fatto di terrore, di dolore e di fiducia. Nel giocare quella scena psicodrammatica, in cui era legato, in cantina, al buio, ripeteva, con gli occhi gonfi di lacrime e la  voce monotona: <adesso vedrai che Robby ritorna  e mi abbraccia forte forte, ritorna, ritorna, ritorna..>  Non ricordava quanto tempo fosse passato, ma solo che difese aveva messo in atto per resistere: le fantasie che arrivasse il suo esercito, quello del principino, oppure una bella principessa come nelle favole che gli raccontava la mamma, o semplicemente la sorella buona che aveva cacciato via quella cattiva. E ricordava le ferite che gli bruciavano e che non poteva curarsi. Ma restò in silenzio, ubbidiente, finché non vennero a liberarlo.

Era notte: aveva freddo, fame, dolore e sonno, ma ricordava ancora la sua sorellona, “poverina”, che piangeva spaventata e continuava a ripetere che non c’entrava niente, che non era colpa sua.
Questo era stato il particolare più significativo, tanto dell’episodio infantile, quanto della sessione di psicodramma: la difesa che Renato stesso aveva fatto della sorella, cercando di convincere la mamma prima, e l’analista poi, che si era fatto male da solo e che la sorella non c’entrava niente.

Volle ripetere scene simili più volte, negli psicodrammi, dopo che gli avevo messo il sospetto che qualcosa non funzionava secondo logica nel suo racconto e che forse aveva cercato di utilizzare Mirella per sopportare quella prima parte della vita, per tentare di modificarla risolvendo gli enigmi che si era portato dentro. Primo fra tutti, il desiderio di amare la più piccola delle due femmine che aveva trovato in casa, di capire perché quella, invece, lo trattasse a volte con aggressività, a volte con tenerezza, a volte con timore, insomma perché lui stesso avesse tanta confusione rispetto alla relazione con la sorella e perché l’avesse trasferita su Mirella.

Alfredo Rapaggi

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