Uno degli obiettivi più difficili, e allo tesso tempo affascinanti, che abbiamo in questo momento è di rendere più efficace la psicoanalisi senza rinunciare alla sua bellezza e alla sua profondità.
Non è semplice chiedere ad una persona, specialmente ad uno psicoanalista, di passare dal fascino dell’incontro libero, dove la parola non ha confini se non quelli dettati dalle proprie resistenze, dove il buio del latente s’illumina nell’intuizione cosciente, al piacere molto più freddo e indiretto di una tappa psicoterapeutica che deve portare ad un risultato previsto. Anche se venissero date ampie rassicurazioni che non si vuole cadere nell’opacità della mera rincorsa al sintomo, non sarebbe comunque semplice.
La psicoanalisi ci ha trasmesso il piacere, tutto umano, della conoscenza dei meccanismi più complessi della psiche e del pensiero, dell’indagine nei desideri più intimi, dell’incontro tra oggetti, fantasie e metafore, della ricerca umana, clinica, ma anche filosofica della distorsione psichica, della tensione affettiva che si crea nella relazione e del suo sviluppo transferale. E’ comprensibile che si rincorra questo piacere, è tipico dell’essere umano farlo, e ci si deve arrabbiare delle anti culture che lo negano e lo seppelliscono di “spazzatura”
Ma negli ultimi cinquant’anni qualcosa non convince. L’impressione infatti è che una corrente non trascurabile di psicoanalisti si siano lasciati cullare oltre il necessario da questo piacere, vi ci si siano pian piano adagiati, affinando persino l’arte di prolungare i tempi dell’intervento, fino a teorizzare un’analisi interminabile. Naturalmente non sono mancate pubblicazioni di sostegno alla tesi che la psicoanalisi debba essere propostacome filosofia di vita, invece che come cura di un stato di disequilibrio psichico, e sono state portate diverse motivazioni a favore di questa idea.
Quando le cose stanno così, cioè in contrapposizione, ritengo che venga tradito il primo obiettivo della psicoanalisi e non si capisce perché, lo dico per inciso e un po’ come proposta, le si voglia mantenere lo stesso nome. Senza nulla togliere al grande valore della filosofia, e alla sua bellezza, da cui sono personalmente affascinato e che vorrei vedere in tutti i programma universitari, compresi quelli tecnici, l’argomento che c’interessa trattare riguarda ciò che serve di più al paziente per riacquistare il suo equilibrio e la sua salute psicofisica. Solo questo, anche se per arrivarci servono tutte le potenzialità umane.
La contrapposizione non mi piace, anche se la diversità mi è chiara. E’ chiara perché l’impostazione di una disciplina, la filosofia, si basa sull’attività cosciente della mente e mira a risolvere i grandi interrogativi della vita, mentre l’altra, la psicoanalisi, utilizza la strada dell’inconscio, per scoprire i conflitti che attanagliano l’essere umano e raggiungere il suo obiettivo terapeutico.
Obiettivo: psicoterapia
Per la psicoanalisi non è sufficiente usare la mente e imparare a viaggiare nelle intriganti e seducenti tortuosità della logica per fare un’azione terapeutica.
Per restituire ad una persona un equilibrio possibile bisogna cambiare il cambiabile della sua personalità. Occorre dunque:
conoscerla, prima di tutto, nelle sue caratteristiche di base;
ammettere che la persona si modifica a contatto con le richieste dell’ambiente e che lo fa anche senza volerlo, per sola imitazione o convenienza istintuale, rimuovendo ciò che non riesce ad affrontare;
considerare di conseguenza il gap che si forma tra personalità di base e personalità acquisita;
imparare a misurare lo spessore delle resistenze inconsce al cambiamento;
accorgersi del piacere e delle tensioni che suscitano in ogni protagonista;
infine, fornire strumenti e ragioni per uscire dai conflitti.
Tutto questo conduce all’integrazione, non alla contrapposizione, anche perché la psicoanalisi, nella sua versione ortodossa, non può onestamente dire di saper raggiungere l’obiettivo psicoterapeutico, così frequentemente in questa società.
Allo stato attuale delle cose è intelligente chi ammette che bisogna ricorrere a più modelli e usare il più adatto ad ogni situazione, ovvero scegliere un modello su cui sia possibile innestare il maggior numero possibile di teorie e di tecniche.
Insomma saper fare un buon “mosaico”.
La scelta dello psicodramma analitico
Ne sono stati convinti anche un gruppo di psichiatri francesi, S. Lebovichi e colleghi, quando, a metà del secolo scorso, hanno attraversato l’Atlantico per recarsi a Beacon da J.Levi Moreno, con l’intento di conoscere da vicino lo psicodramma e vedere quanto potesse servire alla loro causa. All’epoca avevano la necessità di aggiungere alle loro conoscenze psicoanalitiche uno strumento che li aiutasse nel lavoro terapeutico con i bambini e gli adolescenti, cioè con quella categoria di persone che comunicano di preferenza con il linguaggio più spontaneo del corpo, piuttosto che con quello più elaborato della parola, che utilizzano il gioco per allenarsi a vivere in mezzo agli altri, che iniziano e finiscono una relazione con la facilità di chi deve sperimentare più che definire e rendere sicuro.
era troppo legata al mondo dell’immaginario e troppo poco a quello di realtà;
era troppo imprigionata nel setting individuale;
permetteva ad alcuni meccanismi di difesa di nascondere al paziente gran parte dei propri sentimenti e delle proprie emozioni;
il rapporto di transfert era troppo stringente per molti casi;
era troppo poco giocosa nella sua forma.
Pareva davvero indispensabile trovare uno strumento più duttile, che aggiungesse altre possibilità e nascondesse parte di quei limiti.
Annota Paul Lemoin: “Probabilmente Moreno non avrebbe scoperto la sociometria, cioè la scienza che studia le attrazioni e le repulsioni tra gli individui, se si fosse limitato alla prospettiva dell’inconscio. Al contrario dell’analista che punta sul discorso individuale, Moreno impernia lo psicodramma sull’azione e sul gruppo. Per liberare i soggetti, rendendo loro la spontaneità, egli centra la sua azione non sulla libera associazione, bensì sulla libertà con la quale ciascuno sarà in grado di assumere il proprio ruolo” (G. e P. Lemoine, Lo Psicodramma, Moreno riletto alla luce di Freud e Lacan, Feltrinelli 1973.
Uno strumento di questo genere prometteva di essere il tramite più adatto per collegare il mondo della psicoanalisi con gli utenti più vicini alla spontaneità, cioè quello di cui Lebovichi, Anzieu e amici, avevano veramente bisogno.
I “non adulti”, dicevo, prediligono l’espressione più emotiva e diretta, quella che più si avvicina all’azione e all’istinto, tanto che i pedagogisti, adattandosi alle loro esigenze, utilizzano di preferenza il gioco per dare loro le regole del vivere in gruppo e per meglio conoscerli.
E’ nato così lo psicodramma analitico.
Col tempo poi e forse in conseguenza di altri dubbi sull’efficacia della sola psicoanalisi, lo psicodramma, anche nella sua versione analitica (psicoanalitica, freudiana ecc..), è stato rivolto anche agli adulti, sia nel setting individuale, sia in quello di coppia, sia in quello di grupo. A questo punto, gli analisti che lo proponevano hanno visto che si andava evidenziando una nuova categoria di problemi, rispetto al setting individuale. Vediamoli.
Primo, la presenza fisica e reale degli oggetti transferenziali, con i quali è possibile un contatto corporeo che il setting individuale evita, in particolare se si riferisce agli adulti. Rivediamo il quadro della formazione della personalità: quando le regole della comunità di appartenenza non hanno ancora formato le loro spesse radici, costringendo le persone a rimuovere gran parte delle loro pulsioni e a nasconderle nel bacino dell’inconscio, gli altri individui sono elementi prettamente reali, fonti di gioie, di dolori e di tutta la miriade di sentimenti che colorano l’esistenza. Man mano però che avanza la necessità di trovare un equilibrio tra il proprio mondo istintuale e le persone di cui si ha bisogno, queste in parte si trasformano: in parte diventano desideri, sogni, ostacoli, allucinazioni. Diventano un complicato cosmo interiore che non può magicamente apparire su una scena come se fosse reale. Servono allora dei meccanismi di elaborazione che permettano di farne emergere una certa quantità e di riequilibrarne il rimanente. E qua emerge la prima differenza: il setting psicoanalitico è fatto per permettere un’indagine minuziosa del materiale simbolico, dove il corpo reale è praticamente inesistente, è un fantasma, viceversa il setting dello psicodramma è fatto di corpi visibili, di scambio di espressioni, di contatti. Questa grande differenza può diventare un problema.
Secondo, la componente narcisistica, evidente nell’esposizione centrale del protagonista, che può colludere, e ingigantirsi, con la sempre più grande spinta narcisistica serpeggiante nella società attuale. E’ vero che in alcuni casi può essere sfruttata la necessità del paziente di portare sugli oggetti la libido che egli mantiene narcisisticamente su di sé, è vero che la presenza degli Io-ausiliari e del pubblico facilita questo benefico trasferimento, ma è almeno altrettanto reale e probabile il rischio che quel pubblico venga manipolato e messo al servizio dell’auto-gratificazione compensativa, tipica del narcisismo secondario. Possiamo azzardare l’idea che lo psicodramma, da questo punto di vista, segua il principio dei vasi comunicanti, e cioè che quello rivolto a pazienti con nevrosi narcisistica sia da considerarsi più utile, proprio perché costringe il soggetto a rivolgersi all’esterno, ad investire affettivamente fuori da se stesso. Ma solo da questo punto di vista.
Terzo, la parte di passaggio all’atto che si ripete sulla scena, nel “qui ed ora”. Ciò che la psicoanalisi cerca di evitare o di ridurre al minimo indispensabile, cioè la trasformazione dell’immaginario in azione reale, lo psicodramma mette addirittura sulla scena, anche se non completamente. E’ vero infatti che le situazioni richiamate alla coscienza dal protagonista vengono interpretate da persone differenti da quelle originarie, per la precisione dagli Io-ausiliari, e che lui stesso potrebbe essere diverso da quando sono avvenuti gli episodi a cui si riferisce, ma il modo di esporre è un’azione che ricalca quella originaria, a volte nei minimi particolari.. Bisogna dunque trovare un equilibrio che consenta sia il recupero delle emozioni che s’intrecciano nel mondo fantasmatico, cioè di quelle a suo tempo rimosse, sia del materiale che appartiene al reale o che comunque consente un più lucido ‘esame di realtà. E’ obiettivamente un altro problema.
Quarto, l’influenza della diversità di comunicazione, introversa o estroversa, sul risultato dell’intervento. Molti anni di osservazione specifica mi hanno mostrato quanto sia importante la tendenza naturale di porsi in relazione all’ambiente e la distorsione che ne deriva quando questa tendenza non sia sufficientemente rispettata durante lo sviluppo. Il gap tra la tendenza naturale e la modalità relazionale acquisita stabilisce non solo il grado di soddisfazione e serenità, ma anche il setting psicoterapeutico più adatto per una determinata persona. Mi pare di poter dire con sufficiente sicurezza che lo psicodramma analitico, come altre modalità gruppali, è più adatto ad una personalità introvertita, cioè portata forzatamente all’introversione dall’ambiente. Viceversa è poco adatto ad una personalità estrovertita.
Quinto, la spontaneità. L’invito alla spontaneità, nella modalità psicoanalitica, porta il paziente ad un silenzio e ad una tensione che si rivelano determinanti per il ritrovamento e l’esposizione di materiale latente. Lo stesso obiettivo, nella modalità psicodrammatica, viene perseguito attraverso azioni evidenti, sottolineate, illuminate, guidate a volte, anche con una certa direttività che sembra in antitesi con l’obiettivo stesso.
Le due strade dell’ascolto
A questi, che sono temi più o meno dibattuti, vorrei aggiungerne uno, quello dell’ascolto.
Quando, dopo varie esperienze, ho scelto lo psicodramma analitico come mezzo avanzato di psicoterapia, volevo capire meglio quanto incidesse il modo di ascoltareche ha un paziente sdraiato sul lettino, piuttosto che seduto in mezzo ad altri o ritto sulla scena dello psicodramma.
Mi spiego meglio: data una personalità di base simile, introversa o estroversa, una personalità acquisita altrettanto confrontabile, introvertita o estrovertita, e paragonabili tipi e livelli di nevrosi, quanto incide il setting nel modo di accettare e di portare alla coscienza i messaggi dell’analisi?
L’ascolto è, in definitiva, l’elemento più importante.
Non tanto l’ascolto degli altri, che comunque non è così facile, ma l’ascolto delleproprie parole, del loro tono e del loro contenuto,l’ascolto del proprio corpo, delle sue rigidità e dei suoi dolori, e infine quello delle proprie emozioni, anche di quelle più forti e più censurate.
L’ascolto è un termometro abbastanza preciso del lavoro sui meccanismi di difesa e dunque della disponibilità profonda a raggiungere ed elaborare il materiale rimosso. Ascoltarsi, nel senso di accorgersi di ciò che si fa per provocare una certa situazione e di ciò che si mette in atto per evitarne un’altra, significa accorgersi dei conflitti che occupano la psiche, dei vantaggi inconsci o secondari che inducono ad un determinato comportamento; del piacere, della fatica, della vergogna, della rabbia, dei sensi di colpa, delle proprie corazze, delle regressioni e dei propri cambiamenti.
Il tipo di ascolto, dunque, può essere preso come uno dei segnali più importanti, che misura la differenza di efficacia,per un determinato individuo, tra il setting individuale e quello di gruppo, dello psicodramma analitico, messo che entrambi siano condotti dallo stesso psicoanalista.
Prendiamo un esempio.
Chi utilizza la razionalizzazione verbale come meccanismo di difesa dilatato, ovvero come resistenza, avendo come scopo inconscio quello di mantenere segreti i propri sentimenti censurati, passa i 45 minuti della seduta versando fiumi di parole, a volte anche molto belle e ben confezionate, che allontanano sensibilmente una conclusione terapeuticamente valida. Durante questo tempo costui riesce a rendere abbastanza vano, e comunque arduo, l’intervento dell’analista. Ci sono individui che non si ascoltano nemmeno superficialmente, neanche quando sentono il suono modulato uscire dalla loro bocca, che non pesano il significato di ciò che dicono, mentre parlano; persone che uniscono così strettamente e abilmente le frasi da rendere veramente difficile la possibilità per l’analista d’inserirsi; ci sono casi in cui la difficoltà dell’analista non è solo nel fornire un chiarimento o un’interpretazione, ma anche semplicemente nell’avvertire che la seduta è finita.
C’è anche chi segue bene il proprio ragionamento e se ne compiace, ma non si accorge di consumare una bella quantità di libido in un’operazione di copertura, proprio mentre dichiara d’impegnarsi molto nel cercare di spiegare e di capire.
La stessa razionalizzazione può essere silenziosa, naturalmente, e ciò che cambia è solo la forma del rapporto con l’analista. Le parole non dette ottengono una reazione a volte diversa A rigor di logica il silenzio è la culla dell’ascolto di se stessi, ma non ci può essere ascolto se l’azione appartiene all’area delle resistenze. Un pensiero, o una parola detta, non sono resistenze solo se hanno una fine logica, cioè se partono da una tensione e arrivano ad una scarica, se hanno un punto di partenza completo ed uno di arrivo altrettanto finito. La caratteristica invece della razionalizzazione, detta o taciuta, è di essere continua, rotonda, senza soluzione, di non portare cioè a conclusioni costruttive.
La caratteristica del setting psicoanalitico individuale, con la sua penombra e l’accogliente silenzio dell’analista, facilita questo tipo di esposizione, possiamo quasi dire dire che lo chiama, o per lo meno, che fa davvero fatica a contrastarlo.
E’ solo uno degli esempi in cui il setting individuale è seriamente svantaggiato, ma potremmo aggiungervi il caso dell’angoscia da transfert, oppure il caso oggi più frequente di regressione orale e diversi esempi di psicosomatizzazione.
Viceversa il setting di gruppo sollecita un tipo di espressione a senso compiuto, che gli altri partecipanti possono capire e a cui possono rispondere. Poiché gli altri non sono tenuti allo stesso silenzio dell’analista, anche se col tempo ne comprendono l’importanza, restituiscono al soggetto le logiche e gli stati emotivi che hanno ricevuto. Oltre a questo, nello psicodramma la parola diventa gesto, azione vista, partecipata e commentata.
Non è che da questa modalità scompaia la razionalizzazione, ma certamente la si ridimensiona sensibilmente, come più distribuita, quindi più tenue, si fa l’angoscia che accompagna le fantasie di tranfert, come più difficile diventa cullarsi nell’illusione orale e assai più arduo utilizzare la sofferenza del proprio corpo per ottenere aggressivamente l’attenzione desiderata.
Volendo rimanere a questo tema solamente, l’ascolto di sè, sapendo di trascurare il tema introversione-estroversione, il setting di gruppo dello psicodramma analitico, fornisce uno strumento efficacissimo nel rispecchiamento che i testimoni della scena (“il pubblico” per Moreno) danno al protagonista, sia sotto forma di ripetizione parziale e soggettiva dell’azione scenica, sia nelle varie forme d’intervento verbale, prima durante e dopo l’azione stessa.
Il protagonista “razionalizzante” dello psicodramma analitico deve inventarsi un altro meccanismo di resistenza, ma intanto fa a tempo a chiedersi se ne ha ancora bisogno. Soprattutto ha a disposizione molto più tempo e spazio e varietà di luci, di suoni e d’idee.
Per ascoltarsi, per confrontarsi con altri e accettare le voci di ritorno, per accorgersi dei sentimenti che fino a quel momento ha difeso, prima da attacchi reali poi da attacchi sempre più fantasmatici e forse, ad un certo punto, completamente inesistenti, il protagonista dello psicodramma analitico di gruppo ha a disposizione un universo decisamente più ricco.
Di: Alfredo Rapaggi
Info sull'autore