Apro subito una parentesi e preciso che per setting individuale intendo la relazione a due, classica.
Perché propongo questa scelta?
Per almeno quattro motivi:
Primo. Il fatto che esistano due possibili setting relazionali nell’analisi, uno individuale e uno di gruppo, e che ognuno di questi sia riconosciuto efficace in un determinato numero di casi, al di là dei sintomi, mi ha fatto sorgere una prima domanda.
Secondo. L’obiettivo dell’analisi è trovare la modalità più efficace per risolvere le situazioni problematiche denunciate dai pazienti, dunque dobbiamo lavorare in continuazione per migliorare ogni aspetto, setting compreso.
Terzo. Quando la mia analisi personale da individuale è diventata “in gruppo” mi sono chiesto perché facessi così tanta fatica a stare con altre persone, nonostante fossi cresciuto in una famiglia numerosa, e decisamente allegra, e fossi abituato a vivere con almeno 11 persone al giorno; c’era un contrasto che pareva inspiegabile.
Quarto. Fin dalle prime esperienze, in cui già conducevo gruppi, avevo notato che non erano solo il sintomo, o la causa affettiva, a condizionare l’esito di un’analisi, ma che c’erano quattro modalità relazionali che avevano un peso importante, e che ognuna di queste esulava dalla storia familiare di quel soggetto ed era invece comune a più persone.
Dunque, la prima riflessione è sulle modalità relazionali diverse:
è necessario decidere se queste modalità sono dovute alla formazione della personalità, quindi se sono prevalentemente acquisite, oppure se sono innanzitutto caratteristiche innate.
Dell’argomento si sono interessati studiosi di diverso indirizzo e in diverse epoche.
Ne cito alcuni, seguendo un ordine cronologico dalla civiltà greca in poi, tralasciando il corpus astrologico babilonese-egiziano di cui parlo a parte. Dunque:
Ippocrate ha diviso gli esseri umani in quattro categorie, a seconda del loro temperamento (collerico, melanconico, sanguigno, flemmatico). E col termine temperamento ha inteso una caratteristica innata, non acquisita.
Gerolamo Cardano nel 1500 ha usato lo studio delle rughe (metoscopia)per fare sette categorie che s’ispiravano ai sette pianeti conosciuti nell’astrologia dell’epoca (luna, mercurio, venere, sole, marte, giove, saturno)
Sheldon nel 1942 ha proposto una classificazione che considera il legame tra personalità e caratteristiche somatiche innate
Jung, che è il più vicino a noi, parla, tra l’altro, delle due variabili che stabiliscono il modo di porsi in relazione con gli altri, e cioè dell’introversione e dell’estroversione, e le descrive come “disposizioni generali” ad origine biologica, permeati di energia psichica.
L’espressione “disposizioni generali” indica che appartengono a tutti gli esseri umani, al di fuori del messaggio genetico individuale.
Questi ed altri autori, dunque, ammettono l’esistenza di caratteristiche naturali, le riconoscono come esistenti al momento della nascita e non le attribuiscono al bagaglio genetico.
Perché dico che viene escluso il messaggio genetico?
Prendiamo per esempio le due caratteristiche che c’interessano, quelle relazionali, e cioè introversione ed estroversione.
Mi piacerebbe che fosse sufficiente ricordare un dettaglio: che sono solo due, eppure dividono tutti gli esseri umani in due parti, qualunque sia la loro famiglia di appartenenza, la loro cultura e la loro religione.
Potrei anche notare altri due dettagli e cioè:
esistono molti individui non appartenenti alla stessa famiglia e anzi distanti mille miglia tra loro, che sono tendenzialmente introversi, oppure di tendenza opposta, cioè estroversi,
può succedere viceversa che i membri di una stessa famiglia, pur avendo tratti simili o uguali per trasmissione genetica, siano inspiegabilmente diversi proprio in queste due caratteristiche.
Per chiarire meglio: se gli ascendenti sono tutti con la pelle chiara non è previsto che nasca un figlio con la pelle scura. Ma se gli ascendenti fossero introversi, potrebbe tranquillamente nascere un estroverso.
Ma questi indizi sarebbero ancora insufficienti e forse confutabili, se non ne aggiungessimo un altro molto interessante: che tutto l’universo funziona per movimento di contrazione ed espansione.
Tutto l’universo inanimato e animato vive con questo stesso sistema.
Anche il nostro cuore, se vogliamo stare più vicini a noi, funziona per contrazione ed espansione, anche le altre nostre cellule, quelle dei muscoli e quelle dei neurotrasmettitori;
al di là del messaggio genetico individuale funzionano tutte allo stesso modo, per contrazione ed espansione.
Noi abbiamo dedotto che la modalità fisica, e universale, di contrazione ed espansione diventi, nella psicologia umana, la maniera introversa e quella estroversa di porsi in relazione all’ambiente.
Ma torniamo alla scelta del setting
Gli studi sull’efficacia della psicoterapia, presentati ad un convegno fatto presso l’università di Bologna alla fine degli anni 70, arrivavano a risultati abbastanza deboli, finendo per concludere che la variabile più sicura era l’esperienza dello psicoterapeuta. Gli autori di queste ricerche non consideravano molto il setting, o non lo consideravano affatto, per la ragione prevalente che accettavano l’idea che il setting dipendesse quasi esclusivamente dal metodo.
L’idea iniziale era più o meno questa:
la Psicoanalisi aveva come caratteristica il setting individuale, mentre
Lo Psicodramma, la Gestalt e simili, avevano quello di gruppo.
Ma le cose non stavano esattamente così e non ci stanno soprattutto oggi, per più di un motivo:
la diffusione dei “gruppanalisi”, che hanno portato il setting di gruppo nel santuario freudiano;
la contemporanea prassi di utilizzare lo psicodramma anche nel trattamento individuale;
le continue prove di usare anche in setting individuali altri metodi, originariamente concepiti per la coppia o per il gruppo.
Tutto questo ci porta a dire che le metodologie principali offrono entrambe le soluzioni, senza criteri selettivi dimostrabili.
E’ la conferma della necessità di trovare questi criteri, ed è ciò che noi abbiamo cercato di fare seguendo le due strade che descriverò in seguito.
Ripartiamo da due definizioni:
per carattere di base intendiamo la tendenza naturale che una persona possiede prima di entrare a contatto con altre persone.
Per carattere acquisito intendiamo invece la distorsione della personalità dovuta ai tentativi di adattarsi all’ambiente affettivo.
Per quanto poi riguarda le variabili introversione ed estroversione, diciamo che:
L’introversione indica che il soggetto tende naturalmente a trarre la maggior forza dalla propria interiorità
Mentre l’estroversione indica che il soggetto tende ad ottenere il massimo dal rapporto con l’ambiente
Se riusciamo a riconoscere questa differenza, e a misurarla in sede di diagnosi, abbiamo la possibilità di scegliere un setting più efficace di un altro, per ogni paziente.
Su questa base ho portato avanti le due azioni mancanti nell’ipotesi di Jung e cioè:
fornire una dimostrazione
collegare la scelta del setting alle caratteristiche naturali di una persona.
Riguardo al primo punto, cioè fornire una dimostrazione, ho cercato di percorrere due strade:
La strada della ricerca
E quella dell’osservazione
Accenno alla ricerca
La nostra ricerca è partita da obiettivi collegati alle considerazioni appena fatte, e cioè:
portare la dimostrazione che esiste veramente una personalità naturale, che accompagna ogni individuo dal concepimento alla nascita, e che si riferisce al modo di mettersi in rapporto con l’ambiente;
verificare se è possibile che questa personalità, o una sua parte prevalente, non appartenga al messaggio genetico, ma sia comune a più persone al di là della discendenza;
individuare gli elementi che la determinano, o che contribuiscono alla sua formazione;
trovare gli strumenti in grado di fornire le dimostrazioni necessarie.
Abbiamo iniziato a confrontarci con ricerche precedenti ed ecco, tra quelle che abbiamo trovato,quelle che abbiamo ritenute più valide per la nostra tesi:
una ricerca basata sulla temperatura corporea, ritenuta quindi meno complessa e attaccabile di una a carattere psicologico; secondo questa ricerca, una persona adulta, in buona salute, naturalmente introversa ha una temperatura corporea, e la vitalità conseguente, più alta di prima mattina, mentre una persona simile, ma naturalmente estroversa ha la temperatura corporea, e la vitalità conseguente, più alta dalla tarda mattinata in poi. Questa ricerca è stata da noi rifatta, sia mantenendo gli stessi parametri, sia cambiandoli (per esempio introducendo gli orari serali). Purtroppo la sua somministrazione è un po’ laboriosa, ma i risultati sono interessanti.
Inoltre abbiamo costruito due strumenti ad hoc, un questionario e un’inchiesta.
Il primo è stato confrontato con due degli altri strumenti da noi usati (parte Rorchach e parte MBTI)
Il secondo, tuttora in distribuzione, ha una vita propria, nel senso che nasce dalla ricerca sulla temperatura corporea. Ma è formato da un’inchiesta circa le abitudini delle persone nelle prime ore del mattino e in tarda mattinata. I primi risultati sono confortanti.
Oltre a quelli nominati, sono stati fatti altri incroci i cui risultati non sono ancora così soddisfacenti da poter essere riportati, ma che hanno arricchito il numero d’indizi a nostro favore.
Valutazioni sulla ricerca:
Che esistano due tendenze relazionali naturali, introversione ed estroversione, in soggetti geneticamente lontani, sembra dimostrabile.
Abbiamo visto la differenza tra test che misurano la personalità “nel qui ed ora” e test che misurano la tendenza naturale, o ciò che vi si avvicina di più.
Siamo molto vicini a confermare un metodo molto veloce per conoscere una tendenza introversa o estroversa, avendo la possibilità di fornire conferme con strumenti più precisi e complessi nei casi in cui fosse necessario
Per quanto riguarda l’osservazione clinica, mi rendo conto che per essere una dimostrazione ha bisogno dell’avallo di altri colleghi esperti.
Mi limito dunque a descrivere in due parole come ho svolto la mia, e a che riflessioni mi ha portato, senza altre pretese.
La diagnosi. Dopo avere stabilito se mi è possibile prendere in carico un determinato soggetto, guido la diagnosi sulla valutazione della sua tendenza naturale e sulla modalità relazionale prevalente nell’ambiente familiare d’origine.
Quindi decido un setting teorico, seguendo queste regole:
lì, infatti, potrà ritrovare la dimensione più congeniale alla sua natura e vedere con più distacco le parti di sé che ha introiettato per necessità.
qui potrà utilizzare le sue capacità d’intrecciare relazioni come sua natura comanda e notare quali parti di sé sono frutto dell’introiezione.
Per riassumere:
se una persona dilata la sua personalità (e per dilatazione intendo estroversione acquisita) allora il setting che scelgo per lei è quello individuale
se una persona contrae la sua personalità (e per contrazione intendo introversione acquisita) allora il setting che scelgo, sempre in via teorica, è quello di gruppo
2. L’inizio. Prima ho parlato di setting teorico per due ragioni,
perché la scelta definitiva la fa il paziente
e perché la prima parte dell’analisi è comunque in individuale, salvo casi rari.
I motivi sono diversi:
Primo. La tendenza naturale non corrisponde a quella abituale, quindi non sempre il soggetto accetta la modalità che gli fa bene, ma quasi sempre vuole quella a cui si è abituato.
Secondo. Come ben sappiamo l’analisi ha bisogno della decisione libera e convinta del soggetto. E’ necessario un certo tempo per spiegare le ragioni di una scelta.
Terzo. Il tipo di gruppo a cui ci riferiamo, cioè lo psicodramma analitico, ha un suo linguaggio ed è meglio se il soggetto lo conosce subito, prima di sentirlo usare da quelli che sono già nel gruppo.
Quarto. Anche l’alleanza terapeutica ha un certo peso. Quello che in individuale nasce come transfert, pur ricevendo modifiche nel contesto gruppale resta un riferimento affettivo che permette di entrare a contatto con gli altri con maggiore serenità.
3. L’osservazione. Personalmente, o attraverso collaboratori, uso annotare le differenze di progressi ottenuti dai pazienti che hanno seguito il setting consigliato, rispetto a quelli che non l’hanno seguito.
Su 112 casi fin qua studiati da questo punto di vista, queste sono le valutazioni:
14 persone hanno seguito solo a parole il setting concordato, (di gruppo) mantenendolo come proposito e utilizzandolo in vari modi nel corso dell’analisi.
2 persone hanno abbandonato il setting concordato, (di gruppo) dopo meno di tre sessioni. Una aveva insistito per entrare nel gruppo e appena entrata, in ritardo, si è messa in disparte, ha detto di non avere alcuna fiducia nei gruppi in generale ed è tornata al setting precedente, salvo abbandonarlo dopo circa un mese. Ovviamente già nell’analisi iniziale era emerso in modo molto evidente il suo desiderio di restituire parte dei gravi abbandoni ricevuti dai genitori.
8 persone, anch’esse con fantasie di abbandono, hanno utilizzato le due possibilità per spostarsi ripetutamente da un setting all’altro, anche se con frequenze diverse, come avrebbero fatto con più psicoanalisti. Anche se si è trattato di un atto involontario da parte mia, devo dire che ho permesso loro di restare nello stesso legame e di analizzare gli acting-out in modo continuativo.
20 persone hanno mantenuto il setting di gruppo, traendone ottimi vantaggi, pur cercando a tratti un colloquio individuale. Questa modalità è da me favorita perché permette di superare momenti particolarmente difficili che si possono creare nelle relazioni gruppali. Tra l’altro ho notato che viene richiesta all’inizio e alla fine, nei due cambiamenti.
I casi che permettono uno studio più proficuo sono quelli dove la tendenza naturale è più marcata.
Conclusione.
Credo che siamo tutti d’accordo sull’obiettivo che ci dobbiamo porre come psicoterapeuti
ottenere il risultato migliore nel tempo minore possibile.
A nostro avviso il metodo psicoanalitico e lo psicodramma analitico sono gli strumenti più adatti, attualmente, per raggiungere questo traguardo, soprattutto se vengono rispettate cinque condizioni iniziali, che concernono il tipo di relazione.
Queste sono:
2. che si ammetta la possibilità che le persone hanno modalità relazionali diverse, per tendenza naturale; in particolare;
3. che vi sono una tendenza introversa ed una estroversa, che qualificano i rapporti con l’ambiente;
4. che si chiarisca come l’influenza dell’ambiente su questa parte di personalità possa determinare uno sforzo di adattamento, tale da distorcere il modo di costruire le relazioni e quindi il carattere stesso;
5. che la tendenza relazionale naturale, o carattere di base di ogni paziente, sia determinabile in sede di diagnosi;
6. che si dia al paziente stesso una possibilità di scegliere il setting più adatto alla propria tendenza naturale;
7. che venga effettivamente attuata la scelta tra setting individuale e setting di gruppo sulla base di queste considerazioni
di: Alfredo Rapaggi
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