TRA IL DIRE E IL FARE…

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TRA IL DIRE E IL FARE…

Tra il dire e il fare…” Fu Francesco da Masona, medico scaltro vissuto in Emilia attorno al 1600, a coniare questo detto a cui, molto più tardi, un riminese amico di Colombo, invitato a raggiungerlo per avviare un’attività alberghiera a Rio, aggiunse: “c’è di mezzo il mare”.

Francesco era figlio di Piero, un fattore pieno d’orgoglio, che aveva lavorato come un matto, e con eccessiva furbizia, per elevare il livello sociale della sua famiglia, salvo accorgersi che il luccicante denaro accumulato non era sufficiente per raggiungere il suo obiettivo.
Erano tempi bui ma i valori erano ancora quelli veri, o forse no, fatto sta che il fattore decise di rivolgersi al conte Marzio, padrone delle tante terre che lui gestiva, perché presentasse suo figlio ad un illustre professore della facoltà di medicina di Bologna. Il conte, che mal sopportava la furbizia con cui Piero faceva la cresta sui raccolti e sui conti annuali, era propenso a rifiutare, ma poi pensò che in fondo un medico gratis al suo servizio poteva sempre fargli comodo e accompagnò in Università il figlio del suo fattore, con la raccomandazione di fargli onore.
Francesco non perse tempo: si gettò a capofitto sullo studio del corpo umano e riuscì in breve a conoscerne tutte le sfaccettature e le possibilità, con grande soddisfazione sua e di molte sue amiche.

Era una delle prime conferme delle grandi potenzialità di questo giovane, della varietà culturale della città universitaria per eccellenza, e infine della necessità di affiancare studi di psicologia umana a quelli più tipici di medicina.

Ma su questo, dopo 400 anni e diverse variazioni sul tema, non c’è ancora un parere unanime. L’ultima trovata, prima della caduta del governo Prodi, è stata quella di togliere la facoltà di fare psicodiagnosi agli psicoterapeuti, visto che è materia di loro competenza, e di affidarla ai medici, i quali, pur non sapendone niente, hanno un Ordine professionale che si fa valere. Saremmo stati presi di sorpresa se non fosse caduto il governo. Ma ora, ora che anche il nostro Ordine professionale lo sa…va beh, lasciamo perdere.

Piero, il furbo fattore, l’aveva previsto quando aveva scelto i secondi, tra gli studi ecclesiastici (la psicologia di allora) e quelli di medicina. “La gente ha più paura di morire che di andare all’inferno”, aveva sentenziato con provvidenziale saggezza, e aveva mandato il figlio a studiar da medico.

Francesco dunque tornò a casa con la sua brava laurea in mano, la corona d’alloro sul capo, gli occhi luccicanti dalle tante bellezze ammirate, una benefica spossatezza, non certa dovuta allo studio, e una miriade di parole latine sulle labbra.

Un giorno il conte Marzio si ammalò, e ne fu anche contento perché finalmente poteva sperimentare la bravura del suo giovane protetto.

Ahimè, ne fu veramente deluso ma non ebbe la possibilità di protestare e lasciò solo un biglietto a terra prima di soffocare nell’ultimo rantolo. Lo lesse il frate che gli portò l’estrema unzione, nonostante le sue proteste. C’era scritto soltanto: “cancher”, ma era così pregno di patos da sembrare un anatema romanzato, tanto da indurre il notaio Sacripente a togliere ogni beneficio terriero all’ormai vecchio fattore.

Piero dovette lasciare la casa e tante altre cose, sotto gli occhi già cupidi e attenti del nuovo fattore, e mentre passava al figlio un pesante pacco dietro l’altro, continuava a brontolare e a maledire il giorno in cui aveva deciso di mandarlo a studiare: “accidenti”, ripeteva senza cambiar tono, come una macchinetta arrugginita, “vorrei sapere che cavolo di medicina ti hanno insegnato a Bologna, dicevi di aver capito tanto e non sai neanche guarire un malato”. Dopo sette, otto ore di questa musica Francesco si decise a parlare e sibilò timidamente: “Tra il dire e il fare….”

E fu così efficace, nel tono e nell’espressione, che il padre prese a ripetere quel detto, e lo diffuse in tutte la zone che da quel giorno visitò fino alla fine della sua vita.

La morale?

Tra le tante che ognuno può scegliersi, io rifletto sui tipi di studio possibili: quello obbligato per raggiungere il diploma da appendere alla parete dello studio e quello scelto per diventare una e un professionista veramente all’altezza, eccellente. Stando le cose come stanno oggi, mi pare che ci vogliano entrambi, magari ben distribuiti: uno nelle aule universitarie, possibilmente accompagnato dall’allegra esperienza della prima vera libertà di muoversi, e uno negli studi di una scuola di specializzazione, che insegni veramente una pratica della psicoterapia. Una pratica possibilmente diversa da quella conosciuta nelle aule pubbliche.

Tanto per aumentare la conoscenza!!

In questo caso, tra il dire e il fare, cioè tra la teoria e la pratica, non ci sarebbe un mare e basta, ma un formidabile ponte di congiunzione, alla fine del quale deve uscire una persona veramente soddisfatta della propria scelta. Una persona, e una e un professionista, che ha l’orgoglio e la gioia di essere cercata per la propria bravura.

Di: Alfredo Rapaggi

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