Ricerca: un meccanismo di difesa ci porta a parlare con oggetti come se fossero persone

Diadmin

Ricerca: un meccanismo di difesa ci porta a parlare con oggetti come se fossero persone

computer

Parli con il pc e le piante?Lo ha deciso l’evoluzione

Antropomorfizzare le cose inanimate, cioè trattarle come se fossero persone. Un meccanismo che, secondo gli studiosi, si è sviluppato per aiutarci a sopravvivere in un mondo imprevedibile. Ma che può indurci in confusioni e renderci vulnerabili

Inveire contro il computer, parlare amorevolmente con una pianta o dare un nome alla propria auto. Sono tutti comportamenti, al tempo stesso comuni e irrazionali, dietro cui si nasconde uno stesso fenomeno: l’antropomorfismo, uno dei meccanismi principali attraverso cui gli esseri umani tendono a leggere la realtà che li circonda. Si tratta di una caratteristica che fa parte di noi da tempi antichissimi, ma che solo negli ultimi anni ha attirato l’attenzione di molti psicologi ed economisti. A stimolare la ricerca è una serie di domande: Cosa ci spinge a trattare gli oggetti come se fossero persone? Cosa succede a livello neuronale quando ci infuriamo contro la stampante che si inceppa o il telecomando che non va? Perché la natura ha voluto che ci evolvessimo così? In una parola: a chi giova? L’ultimo numero del New Scientist 1 e un recente articolo pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology 2 individuano cause, dinamiche, vantaggi e svantaggi di vedere l’intenzionalità umana dietro ogni cosa.Un fenomeno antico. Dal punto di vista scientifico, a definire il fenomeno ci pensa Nicholas Epley 3, professore di Scienze del Comportamento presso l’Università di Chicago. “L’antropomorfismo  –  scrive nel suo articolo  –  rappresenta un processo mentale in cui le persone caricano il comportamento di altri agenti con caratteristiche,

 

motivazioni o intenzioni simili a quelle degli esseri umani”. La prima menzione in assoluto, invece, risale al filosofo greco Senofane di Colofone, che criticava il modo in cui gli umani immaginavano e raffiguravano gli dei: a loro immagine e somiglianza, appunto, notando come gli antichi greci venerassero divinità dagli occhi blu e dalla carnagione chiara, mentre le popolazioni africane li immaginavano con capelli e occhi neri.

 

Andando ancora più indietro nel tempo, questo meccanismo mentale si ritrova nell’arte delle caverne, con i primi disegni di figure metà umane, metà animali realizzati dai nostri antenati già 30.000 anni fa. A suggerire che questa tendenza potrebbe essere molto più antica ed evolutivamente conservata di quanto ritenuto finora è la sua osservazione tra gli scimpanzé: loro, in particolare, sembrano personificare (o meglio, “scimmiomorfizzare”) gli eventi climatici avversi, contrastandoli a colpi di rami. Quando si avvicina un temporale, alcuni di questi animali mettono in scena la “danza della pioggia”, un vero e proprio rituale in cui i maschi dominanti assumono contro i lampi lo stesso atteggiamento riservato agli altri rivali quadrumani.

 

Perché umanizziamo gli oggetti. Come è stato registrato da diverse ricerche, la tendenza ad antropomorfizzare gli oggetti, seppur presente un po’ in tutti, è maggiore nei bambini e nelle persone che vivono in solitudine. Durante l’infanzia i bimbi attribuirebbero capacità umane anche a cose e animali perché più semplici da comprendere, mentre nella solitudine sarebbe la nostra socialità innata a spingerci a costruire altri “esseri umani”. Emblematica a riguardo è la scena di Cast Away dove Tom Hanks, naufrago in una terra desolata, scherza e parla con una palla da volleyball di nome Wilson, spinto dalla necessità di continuare ad avere rapporti sociali anche nel più completo isolamento. Al di là di queste situazioni estreme, tuttavia, il meccanismo è ampiamente presente nella vita quotidiana, come quando pensiamo che gli strumenti informatici “non vogliano collaborare” perché “ce l’hanno con noi”. Secondo alcuni psicologici, tra cui Epley e colleghi, l’antropomorfizzazione potrebbe dunque essere il frutto di una terza condizione: la necessità di creare una senso di maggiore controllo sulla realtà che ci circonda.

 

Le situazioni impreviste. Studiando il nostro modo di raffigurare e interagire con oggetti che si comportano in maniera ripetitiva o inaspettata, il gruppo di Epley ha mostrato che siamo tanto più spinti a umanizzare le cose quanto più queste sono caratterizzate da un atteggiamento imprevedibile. E’ come se, riconoscendogli una complessità maggiore, elevassimo l’oggetto a un rango più vicino al nostro. In uno degli esperimenti, ad esempio, i ricercatori hanno messo alcuni volontari di fronte ad un robot di cui dovevano prevedere i comportamenti. Hanno così osservato che quando la macchina aveva un modo di fare imprevedibile era più spesso considerata “di animo umano”, e che la tendenza ad antropomorfizzarla era tanto più marcata quanto più i soggetti erano motivati a prevederne mosse. La conclusione, secondo gli studiosi, è che questo meccanismo mentale si sia evoluto per far sì che includessimo i fenomeni complessi non-umani nella sfera di quelli tipici della nostra specie. Sorprendentemente, si tratta di una caratteristica osservabile anche a livello neuronale grazie alla risonanza magnetica funzionale: il pensiero degli oggetti umanizzati, infatti, attiva le stesse aree cerebrali riservate unicamente alla comprensione degli altri esseri umani.

 

I vantaggi delle tecnologie antropomorfe. Una delle conseguenze di questo genere di studi è la ricerca di metodologie per facilitare l’antropomorfizzazione di strumenti elettronici, così da renderli più stimolanti per la mente umana. Con lo sviluppo continuo di nuove tecnologie e l’invecchiamento progressivo della popolazione, infatti, stare al passo con i tempi potrebbe risultare più semplice se si riuscisse ad attivare quello stesso stimolo che ci spinge a conoscere e comprendere nuove persone. Per questo, alcuni ricercatori considerano l’antropomorfizzazione una via più diretta verso una società che elimini il “divario digitale”, almeno dal punto di vista dell’età. D’altronde è già stato osservato che anche le persone meno “tecnologiche” sono attratte e si appoggiano di più a un PC quando riescono ad attribuirgli dei tratti umani. Una considerazione simile ha guidato anche gli sviluppatori del servizio telefonico di Amazon.com: aggiungendo al repertorio della vocetta meccanica qualche frase più empatica, è stata riscontrata una maggiore propensione dei clienti a continuare la conversazione e procedere con l’acquisto di libri.

 

I rischi: borsa e scommesse. Come sottolinea Douglas Fox del New Scientist, dietro questa tendenza si nascondono anche alcune insidie: l’antropomorfizzazione, infatti, potrebbe  guidare le nostre scelte in maniera errata. In un articolo in fase di pubblicazione, ricercatori dell’Università di Chicago hanno mostrato che di fronte a slot machine con tratti antropomorfi le persone timide mostrano più diffidenza, mentre quelle con più fiducia in se stesse tendono a perdere completamente il senso della casualità tipica del gioco. In questo modo, i giocatori più sicuri potrebbero essere facilmente raggirati, cadendo nel trabocchetto di illusoria umanità della macchina. Un fenomeno simile può essere rintracciato anche nei mercati azionari, dove gli andamenti dell’economia virtuale vengono spesso descritti con tratti antropomorfi, creando così false credenze. Se da un lato, dunque, antropomorfizzare fa bene e ci aiuta ad affrontare un mondo imprevedibile, è vero anche che abusarne può voler dire discostarsi troppo dalla realtà: se una macchina ammicca, insomma, è meglio non credergli, il rischio è di ritrovarsi con il portafoglio a secco.

 

Fonte: La Repubblica

Info sull'autore

admin administrator

M0r3N0_11